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Draghi va da Mattarella e poi avvisa la maggioranza: "Così non va, e io non ci sto"


Link [2022-02-17 23:12:32]



In quei dieci secondi, quelli che hanno diviso la requisitoria dalle repliche, in quel silenzio, c’era tutto il senso di un disorientamento: “Così – confesserà più tardi uno dei ministri presenti – non lo avevamo visto mai”. Li ha voluti tutti a Palazzo Chigi, i capi delegazione, convocandoli senza grande preavviso. Ma prima, Mario Draghi s’era recato al Quirinale, aveva anticipato a Sergio Mattarella la sua volontà, ricevendone pieno mandato. E così il premier, ritornato da Bruxelles dopo un Consiglio europeo dedicato al Sahel prima e alla crisi ucraina poi, s’è dedicato alle tensioni che funestano la sua maggioranza. “Non è pensabile che dopo aver trovato un accordo in Cdm, i partiti rimettano in discussione quelle intese”. L’innesco della crisi è stato il rodeo notturno sul Milleproroghe, il governo che va sotto quattro volte in poche ore, i deputati della stessa maggioranza, il leghista Igor Iezzi e il dem Ubaldo Pagano, che quasi vengono alle mani. Ma prima ancora era stato Francesco Giavazzi, consigliere economico del premier, a segnalare il suo allarme, dopo che mercoledì s’era ritrovato ad assistere, durante un vertice a Montecitorio, all’ennesima impuntatura leghista sulla delega fiscale. “Ma non è possibile che ora, dopo che avevamo già convenuto un percorso, si pongano veti sulla riforma del catasto”, ha ribadito Draghi. 

Ad ascoltare il premier, uno accanto all’altro, i capi delegazione. “Siete voi che dovete garantire al governo i voti in Parlamento, oppure non si può andare avanti”. E loro, dopo avere incassato, provano a reagire, a far valere le loro ragioni. Che pure ci sono. E allora Andrea Orlando rivendica la leatà del Pd, obietta che “semmai a creare instabilità è il fatto che al termine di ogni Cdm c’è qualcuno che fa dichiarazioni e pone distinguo”. Stoccata che Giancarlo Giorgetti para appigliandosi alla contingenza favorevole: “A dire il vero l’emendamento al Milleproroghe sull’Ilva era stato concordato qui a Palazzo Chigi, ma poi siete stati voi del Pd e il M5s ad affossarlo ieri notte”.

La renziana Elena Bonetti chiede allora “maggiore condivisione”, stessa obiezione avanzata da Stefano Patuanelli: “I testi dei provvedimenti non possono esserci mostrati solo a ridosso dei vertici”. Mariastella Gelmini prova a offrire una soluzione: “Il ministro D’Incà andrebbe aiutato: magari una riunione mensile coi capigruppo migliorerebbe la gestione dei lavori in Aula”. E Draghi ascolta, annota. Ma ribatte: “Sulla legge di Bilancio abbiamo fatto un percorso improntato alla massima concertazione: ministri, capigruppo, parti sociali. Poi però mi sono ritrovato coi parlamentari che tuonavano per il ritardo con cui la Finanziaria era stata inviata alle Camere, lamentavano lo svilimento del loro ruolo di deputati e senatori”.

C’è un metodo, da ripensare. Ma in questo ridefinizione degli  assetti, Draghi vuole evitare la palude, rifugge il fantasma dei tatticismi come uno spauracchio letale: “Perché questo governo è nato in condizioni particolari, ed è noto a tutti, ma è nato soprattutto per fare le cose, per decidere, per agire”. Ed è per questo, allora, che non è concepibile, per il premier, che perfino sui provvedimenti che investono le scadenze del Pnrr si rischi l’inconcludenza: e invece la delega fiscale è ferma, la legge sugli appalti è rimasta sepolta al Senato per mesi, quella sulla Concorrenza gravata da 150 audizione e minacce d’ostruzionismo. Eccolo, ad esempio, Maurizio Gasparri fuori dal Senato, che suggerisce la via piùà efficace per impallinare la norma sulla liberalizzazione delle concessioni balneari: “Ché siccome  non è un decreto, e siccome noi senatori non siamo stati coinvolti, vedrete quante centinaia di emendamenti pioveranno, se il governo non accetterà i nostri suggerimenti”. E’ un uroboro di incomunicabilità, di reciproche diffidenze, di mutevoli incomprensioni tra governo e Parlamento. E lo stesso vale del resto sulla giustizia. Perché pure lì l’intesa di massima trovata in Cdm pare destinata a non reggere alla prova dei veti incrociati dei partiti, e la riforma del Csm resta sospesa sui tatticismi.  Al punto che Alfredo Bazoli, capogruppo del Pd in commissione Giustizia, ai colleghi  del M5s ha offerto il suo pronostico: “Finirà che il Parlamento, a cui Draghi ha demandato l’onere di definire il testo, ammetterà che non ci sono margini per chiudere un accordo, al che il premier riprenderà il dossier e ce le riproporrà mettendoci la fiducia”. Subbuglio analogo a quello in cui è finito il Superbonus, che domani torna in Cdm per essere aggiornato – e pare paradossale – con correzioni che correggono precedenti correzioni, che si sommano a storture mai sanate. Già, perché domani è un nuovo giorno di passione. Ci sarà da definire l’intervento sul caro bollette. Sperando che non venga poi affossato pure quello, in Parlamento.



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